lunedì 29 febbraio 2016

Inno all'umanità

Verso la fine del 2015 ho avuto una brutta disavventura, più di una in realtà, ma quella a cui mi riferisco è stata particolarmente toccante e ha sconvolto una parte di me. Non racconterò i dettagli né cosa è successo, ma da un giorno all’altro la mia idea delle persone, del loro modo di capirmi, o meglio di non capirmi, è stata scardinata per poi essere travolta in un fastidioso buco nero. È come se da un momento all’altro mi fossi ritrovata attonita davanti ad una realtà a lungo celata ma della quale mai avrei sospettato l’esistenza, come quando ci si sveglia dopo una brutta sbronza, cercando di combattere un mal di testa tremendamente forte e maledicendo la troppa luce presente in una stanza vuota, con le lenzuola grigio perla, e che non è la nostra. In quel momento, cercando di ricollegare i dettagli, e di visualizzare i vari “dove ho sbagliato” e i “perché faccio così/perché fanno così” mi sono resa conto che qualcosa doveva cambiare, perché nella stanza con troppa luce, che non è nostra e con le lenzuola grigio perla non ci volevo più entrare. Mi sono guardata allo specchio, ho cercato l’anima, quasi più nascosta dei “dove ho sbagliato” e dei “perché faccio così/perché fanno così” e non trovandola, non intera per lo meno, mi sono fatta una promessa: da domani basta svendersi e sottovalutarsi.
Basta declassarsi, umiliarsi, non pretendere dalla vita ciò che posso avere. Posso? No. Ora non posso. Ora non posso perché nella mia testa il verbo potere è al condizionale, perché non me lo voglio permettere, perché per ora non ci credo. Ma potrò, prima o poi. Basta accontentarsi.  Questo è il mio problema: sottovalutarsi. Ma, come si addice ad una persona un po’ lunatica, dispotica, dipendente da cambiamenti improvvisi di umore ed invasioni di emozioni diverse e disparate in un solo decimo di secondo, una persona che, come spesso mi viene detto, “amplifica”; il mio modo di sottovalutarsi è un po’ particolare.
Per sottovalutarmi non intendo pensare di essere bruttissima, o pensare di non poter raggiungere un determinato obbiettivo che ritengo troppo altro per le mie capacità; quando si tratta di me stessa, un traguardo, di cosa posso fare e cosa no, allora sono una super eroina: non c’è ostacolo che tenga e nulla che io davvero non pensi di poter fare. So che se voglio qualcosa, in qualche modo riuscirò ad ottenerla; ho fiducia in me, nella mia vita, nelle mie capacità e nel mio futuro (che per la cronaca, sarà sfavillante e dedicato a tutti gli autori della mia anima a pezzi ed introvabile). Non sono nemmeno una di quelle ragazze che hanno una taglia 40 e pensano di non potersi permettere un tubino nero, né tanto meno una di quelle persone che si arrendono ad un destino che non è il loro per comodità, “che fanno i tonti per non andare in guerra”. No, io in guerra ci vado ogni giorno, disposta a tutto per arrivare al mio obbiettivo, spogliandomi di pregiudizi e piegandomi a ciò che è dignitosamente necessario per arrivare in quel futuro sfavillante di cui parlavo prima. A me non importa il costo, cosa perderò lungo la strada e di chi non capirà le mie scelte, del tempo che dovrò perdere e di chi mi allontanerà. Però mi sottovaluto, a modo mio, quando si tratta di relazioni interpersonali. Ho una di quelle gravi malattie, quella che io chiamo miopia relazionale, che mi costringe a vedere sempre il buono nelle persone, a cercarlo, scovarlo e amplificarlo come in quei giorni in cui ci si decide a tornare a casa con un vestito nuovo, e nonostante il negozio non offra nulla per cui vale la pena spendere dei soldi, nulla che ci piace e nulla che ci sta bene, ci si fa andare bene un vestito carino e si apre il portafoglio. Io sono così, nonostante le barriere, nonostante gli anni spesi a modificare me stessa per trasformarla in un pezzo di ghiaccio, nonostante le cicatrici, le troppe cicatrici e nonostante gli ostacoli che posiziono di giorno in giorno sul cammino per raggiungere me, finisco sempre per dare tutto, per cedere al piccolo lato positivo che ho trovato e a lasciare che quello spiraglio di luce sembri accecante, come la tanto ricercata “luce in fondo al tunnel”. Con il passare degli anni ho capito che non sono capace di essere la regina del ghiaccio, sono difficile, si, ma non riesco ad essere impassibile, e così, finisco sempre per dare me stessa anche a chi non mi merita, a chi non mi apprezza, a chi di me non interessa nulla.
Avevo deciso di smettere. Ma forse, smettendo, diventerei come quelle persone che non sanno distinguere una relazione da un pizzico di umanità, il volersi bene dall’aiutare il prossimo, l’essere gentili dall’essere deboli. Perché si, c’è una differenza in tutto ciò. Avere una relazione o non averla è diverso da escludere o avere dell’umanità: una relazione è uno status, che si può decidere di dare o meno ad un rapporto; ma l’umanità è qualcosa che o c’è o non c’è, o ci si nasce oppure no. Non è un’etichetta o un accessorio riconosciuto socialmente da sfoggiare sul profilo facebook; e se c’è, se ci si nasce, è una fiamma impossibile da spegnere, che per quanto si possa sopprimere prima o poi ritorna a prendersi il suo posto. Così la gentilezza, così l’aiuto reciproco, così avere dei sentimenti e non essere dei fottutissimi automi. Chi ha tutto ciò, non sarà capace di limitarsi, non sarà disposto a fingere il pezzo di ghiaccio, non si impegnerà in un compromesso con sé stesso, chi ha tutto ciò, tutto ciò vorrà tutto ciò in cambio e non sarà capace di accettare surrogati. Questa è la mia, e non solo mia, maledizione. Chi vede il bene lo pretende, chi condisce la sua vita di umanità non la annacquerà con cubetti di ghiaccio, ci proverà, ma di certo non sarà soddisfatto del risultato. Se devo vivere limitandomi, forse preferisco non vivere. E se le persone umane non vanno più di moda, beh, io adoro il vintage, i piccoli gesti gentili, i “come stai” e la luce in fondo al tunnel. Io amo le persone che nonostante le barriere, nonostante i traumi e le anime a pezzi hanno sempre la forza di regalare il bene, di opporsi agli automi e di farsi del male cercando il buono negli altri. Queste persone, che soffrono di più, che sembrano più fragili, sono in realtà quelle più forti. Siamo talmente abituati allo schifo, al male che ormai il bene fa paura, come se passassimo mesi al buio ed i nostri occhi non fossero più capaci di sopportare la luce, e allora ci rifugiamo nella fuga. Anzi no, vi rifugiate nella fuga. O meglio, si rifugiano nella fuga, (perché so di non essere l’unica vintage) come i vermi che hanno paura di seccarsi al sole. Se si fugge però, non ci si può aspettare di imbattersi in un altrettanto schifo, in un altrettanto male, in un altrettanto buio, in un altro verme che come te sta scappando dal sole.






martedì 16 febbraio 2016

critica acritica di Sanremo ed il pianista guerriero

In questi giorni, senza dubbio, l’hot-topic che intasa radio, tv, e web è uno ed uno solo: Sanremo. 
Una settimana fa si parlava delle anticipazioni, dei pronostici, dei piccoli gossip su chi, come e quando sarebbe stato al festival. Dopo c’è stato il “durante”, tra polemiche su un Gabriel Garko bello quanto incapace e una Virginia Raffaele brillante, nastrini arcobaleno ed ospiti innegabilmente costosi; ed ora, quando tutto sembra finito si continua a parlarne tra valutazioni, pagelle ed interviste a vincitori premiati e vincitori “morali”. Mi sono sempre chiesta come un festival, a cui partecipano cantanti bravi ma non di certo le perle affermate della musica italiana, possa riscuotere così tanto successo, tanto più che delle canzoni presentate solo due o tre sarebbero ascoltabili senza iniettare nell’ascoltatore una terribile dose di malinconia. Parere personale, ovviamente. Inutile dire che per queste ragioni, e sicuramente anche perché la televisione non rientra nei miei hobby preferiti, non ho mai guardato Sanremo. Quest’anno però, complice una serie di sfortunate malattie di stagione arrivate tutte insieme quali influenza, raffreddore, un ascesso e febbre alta, mi sono ritrovata a contribuire ai grandi picchi di ascolti del festival, bloccata sul divano con una bolla dell’acqua calda e senza troppe alternative valide sugli altri canali. Quasi per una congiuntura astrale, in collaborazione con l’universo e con il patrocinio del karma negativo che chissà come ho attirato su di me; ho seguito ogni puntata di Sanremo, arrivando in parte a mettere in discussione i miei pregiudizi.
Di certo il festival è piacevole da seguire, se non per le canzoni lo è per i presentatori, le gag, gli ospiti e le interviste; ma in alcuni momenti è arrivato ad essere addirittura commovente. Inutile dire che, tra gli svariati programmi della televisione italiana, che di certo non brillano per intelligenza e profondità di argomenti, il Festival di quest’anno sia stato per certi versi non solo intelligente, ma addirittura un momento culturale e di critica, seppur velata, dei grandi argomenti che si stanno discutendo. Partendo dai nastrini arcobaleno, arrivando agli interventi semi-rivoluzionari di Rocco Hunt, fino alla commovente esibizione di Ezio Bosso, mi sono ritrovata piacevolmente sorpresa nel constatare che forse la televisione non è messa poi così male, che forse rimane un minimo del ruolo che l’arte dovrebbe avere, in ogni sua forma: quello di criticare una società malata e corrotta, di stimolare riflessioni, e portare i problemi all’attenzione delle masse, seppur con una veste diversa.
Ma andiamo con ordine. A prescindere dalle opinioni in merito, penso che l’iniziativa dei nastrini arcobaleno sia stata una grande prova che il popolo italiano ed i suoi artisti non sono così stupidi e dormienti come spesso ci viene fatto credere. Portare un tema così delicato ad una vetrina così vasta e con un pubblico così variegato come il festival, penso che sia lodevole e di grande impatto. Ma soprattutto trattare questo tema, per la prima volta, in modo silenzioso, senza berci ed insulti, e nel totale rispetto dell’opinione altrui, trovo che sia un gesto davvero intelligente e degno di nota. Quando si parla di gay, famiglie, matrimonio ed adozione, solitamente il discorso ricade nella “malattia dell’omosessualità” e nella “normalità di una famiglia composta da due elementi di sesso diverso”; un tema così importante viene banalizzato senza scrupolo e ridotto a discorsi senza senso, senza capo né coda, che non possono, ma attenzione, soprattutto non vogliono portare a nulla di costruttivo. Invece a Sanremo non ha parlato nessuno, non ha insultato nessuno, non ha motivato nessuno, non ha convinto nessuno; ci si è semplicemente limitati a mettere in mostra un’opinione senza nemmeno nominarla, ci si è limitati a far vedere da che parte si sta e a tacere, lasciando le considerazioni agli spettatori. O meglio, a chi stava guardando quel programma con il cervello acceso e con la voglia di assimilare informazioni e rifletterci su perché, va sempre ricordato, molto dipende da con che occhi si guarda qualcosa e da con che spirito lo si vuole giudicare. Ed è proprio in questo verbo che sta la genialità di questa iniziativa: giudicare. Nessuno, con i nastrini o senza, ha giudicato.


E poi il pianista. Ezio Bosso. Quel signore in carrozzella che continuava a ridere, che non avendo visto la presentazione inizialmente non capivo cosa ci facesse lì e chi fosse, quella che pensavo fosse un’imitazione di pessimo gusto contro la quale ero già pronta a scagliarmi, tanto erano esagerati i gesti mentre parlava. E invece no, cinque minuti dopo mi era chiaro che lui era vero, che quei gesti enormi erano solo il segno di un'energia travolgente e io stavo piangendo. Così visibilmente malato, eppure così bello. L’immagine dei sogni che salvano, della forza che eleva, della bellezza d’animo, di un cuore enorme, dell’arte che si tramuta in vita. Tutta quell’energia che quasi mi faceva sentire una nullità a confronto; la luce negli occhi, quella della fenice che rinasce dalle ceneri, quella di chi combatte costantemente, quella di chi non si può arrendere e nonostante tutte le cose brutte passate sorride e ti mette una gran voglia di vivere. Questa è la vera forza: quella di chi nonostante le battaglie perse non perde mai la positività, non smette mai di sorridere alla vita, non si rinchiude in barriere e non alza muri, non diventa scontroso, non maledice la vita ma anzi la benedice e rimane lì; e ride, abbagliandoti quasi a tal punto da nascondere le cicatrici. Così è la sua musica: speranzosa, luminosa, ammaliante, un balsamo contro il male. Lui, è il vero vincitore di Sanremo, della vita. Lui è un eroe. E finalmente su un palco così importante e così seguito, viene mostrato qualcuno di davvero grande, qualcuno puro e da cui davvero dovremmo prendere esempio.  Qualcuno che è un drago, nonostante la sua fragilità, un guerriero, ma soprattutto qualcuno che ha il grande potere magico di farti venir voglia di essere migliore. 


lunedì 1 febbraio 2016

Addio

Caro amico,
siamo nei giorni della merla, ma nella tua Italia non fa freddo. E nemmeno nella tua Torino, sai, ci sono stata ieri per un tragico gioco d’ironia della sorte. Io però oggi, nonostante i 10 gradi, ho asciugato i capelli con l'asciugacapelli; di solito non lo faccio ma oggi si, perché sentivo il gelo nelle ossa, perché avevo brividi che immobilizzavano ogni fibra nervosa, perché sentivo il ghiaccio gelare ogni movimento vitale dentro di me. Forse è così che ti sei sentito anche tu, nell’ultimo istante, realizzando che l’aria mancava, che la gola stringeva, che tutto passava davanti come in un treno impazzito, riportando dolore e gioia nella stessa carrozza, fino a che non hai tirato il freno a mano e concluso la sua corsa. Forse hai avuto paura, hai maledetto la tua decisione, hai desiderato di poter premere rewind e riprendere tutto da capo come per magia, ridendo sul gesto folle che avevi quasi compiuto. O magari no, magari eri solo beato, felice, in pace. Non lo so, e non lo saprò mai, così come le infinite risposte alla miriade di domande che in questi casi vorremmo urlare, che iniziano a tormentare le nostre notti, a gonfiare le occhiaie e a bagnare gli occhi, fino a che si assopiranno, come in un abbiocco temporaneo, per destarsi di nuovo alla prima occasione utile. La vita, la morte, le decisioni, i bivi, la giovinezza, la vecchiaia che non vedrai mai, cos’è tutto ciò? Non lo sappiamo, e nell’incertezza ho acceso un altro lumino con il mio solito motto: oggi guardo il soffitto, ma da domani si riparte, con milioni di cicatrici in più. Ma continuo a sentirlo, il freddo; nonostante il riscaldamento, la doccia bollente, la tuta felpata e l’accappatoio di pile. Lo sento anche ora, mentre ti scrivo questa lettera senza destinazione, penetrare nelle punte delle dita e rendere il ticchettio sui tasti doloroso. Lo sento nella schiena, nelle spalle, nelle ginocchia, e persino negli occhi. Lo sento perché non è solo freddo: è vuoto, strazio, mutismo, il desiderio di rifugiarsi in un abbraccio, la nausea che sale e nessuna voglia di mangiare, la fuga nel silenzio che ora sembra assordante quanto necessario, la paralisi a guardare il lumino, l’immobilismo e il turbine di pensieri annebbiati, fini a sé stessi.  Non è il primo che accendo, non è la prima volta che accade tutto questo, non la prima volta che mi trovo ad imprecare rassegnata contro un destino nel quale non vedo un senso, contro i tratti di un disegno che scompaiono per diventare insulsi scarabocchi chiusi in sé stessi, privi di estetica e significato. In questa vita incrociamo milioni di destini, milioni di vite, occhi, sorrisi, con cui condividiamo momenti fuggenti o piccole eternità, ma nonostante il dato temporale non smettiamo mai di mischiarci. Ci sono anime che si fermano solo un giorno ma che ci si imprimono sottopelle, che sentiamo affini, e ci accrescono, buttano qualcosa in più in quella miscela di ingredienti che non smette mai di formarsi durante i giorni che viviamo; lasciano e prendono qualcosa: ricordi, emozioni, condivisioni. Non per tutti, alcune persone magari non sentono come sento io, ma a discapito delle mie barriere io lascio entrare tutti, lascio entrare quegli animi che sento propendersi verso di me, e lascio che si mischino. Noi che viaggiamo rischiamo di più, ci mischiamo di più, viviamo attimi che durano mesi ed emozioni amplificate, per noi un momento insieme vale quanto un mese di amicizia, ci affezioniamo di più, ci rifugiamo nell’altro come per colmare la lontananza dalla vita “reale”. Noi siamo più forti, ma allo stesso tempo più vulnerabili. Non abbiamo condiviso molto, io e te, solo una casa e una città per poco più di un mese, ma io ti ricordo. Ricordo quando bussavi alla porta e facevi colazione con noi, scroccando l’ennesima fetta di torta al cioccolato appena fatta. Ricordo quando tornando a casa vi trovavo seduti attorno al mio tavolo, e vi ricordavo scherzosa che anche voi avevate un appartamento, che probabilmente avevate sbagliato porta, che la vostra era proprio quella accanto. Ricordo le cene improvvisate e condivise, le sere in cui bussavi, entravi e nonostante la mia faccia assonnata mi obbligavi benevolmente a bere una birretta e fare quattro chiacchiere. Ricordo i party, i ritorni a casa in taxi, le ore passate nel salotto tra la spaghettata di mezzanotte e quattro cazzate tra amici, ricordo il van e le tue offerte di portarci al supermercato per risparmiarci mezz’ora a piedi sotto 40 gradi. Io ricordo, sebbene non abbiamo passato anni insieme, io ricordo. Momenti, piccoli, ma che si sono impressi sottopelle perché tu eri davvero una brava persona, perché tu eri solare, perché tu eri uno spirito affine, perché tu non lo meritavi. Ricordo il lavoro nei campi, duro e faticoso mi spezzava la schiena ogni giorno, mi disintegrava, mi deprimeva, però noi ci ridevamo su, voi mi aiutavate e mi contagiavate con la solita frase, con quell’innocente irriverenza, con quella strafottente ribellione: “ne faccio uno di bin, e poi vado a dormire sul furgoncino, vaffanculo”. Ricordo le giornate passate a casa da sola, quando le gambe a pezzi e la schiena dolorante mi impedivano di andare al lavoro, quando non riuscivo a stare in nessuna posizione senza che i miei muscoli facessero male, e mi mettevo sul divano a studiare per la tesi, fino a che ancora una volta arrivavi dalla porta accanto e ti fermavi una mezz’ora a chiacchierare. È stato bello, sai, averti come vicino di casa. E poi ricordo l’ultima volta che ti ho visto, per puro caso: era Natale dello scorso anno e tu eri partito già da un po’, stavi viaggiando con il tuo van sgangherato chissà con quale meta, avevi lasciato il lavoro nei campi ed ora ti godevi la vita da backpacker. Io ero a Surfers, per qualche giorno di vacanza, e mi stavo dando allo shopping sfrenato mentre Simone mi aspettava sul marciapiede fuori dal negozio fumando una sigaretta paziente, lo avevi riconosciuto da lontano e ti eri fermato a parlare. Eri radioso, felice, luminoso; illuminato dalla presenza della tua ragazza, così innamorato e premuroso, e in quel momento fui davvero felice per te. Ci salutammo, sorridenti, con la promessa di sentirci nel caso in cui ci fossimo trovati nello stesso posto; ti augurammo buon viaggio e ti abbracciammo. Spero che lo sia stato davvero, un buon viaggio. Chissà cos’è successo dopo, chissà cosa ha portato quel ragazzo tanto sereno a compiere lo spietato ed ultimo gesto, l’ultimo urlo di dolore straziante per un mondo che delle volte ci lascia incompresi. Intanto io ti scrivo questa lettera, perché non so cosa c’è dopo la morte, perché non so se scommettere sull’eternità; ma perlomeno in queste parole vivrai per sempre.
Con affetto,

riposa in pace.

martedì 26 gennaio 2016

Circhi, maschere e Libertà

Mostra ciò che sei, sii ciò che mostri
Ho iniziato a riflettere su questo post pochi giorni fa, dopo un avvenimento ordinario che, come
spesso succede, ha aperto le porte a pensieri straordinari. Un semplice messaggio whatsapp, visto di mattina troppo presto ed ancora assopito da una nebbia di sonnolenza, ignorato con la solita frase mentale “rispondo più tardi”; che poche ore dopo si è ripresentato come un colpo di genio destandomi da un noioso viaggio in treno passato a scrutare un mondo immaginario al di là del finestrino. Campi, casupole, boschi, e ancora campi; giallo, brina, l’alba, i monti sempre più grossi e… oddio, mi stavo quasi dimenticando di rispondere! Cercai il cellulare con mosse frenetiche, ribaltando come al mio solito l’intero contenuto della borsa, aprii whatsapp come se fosse una questione di vita o di morte, ed eccolo lì: l’ennesimo invito ad un ballo in maschera. Il secondo, nel giro di pochi mesi, come se l’universo volesse vedermi ancora una volta a volto coperto aggirarmi tra conosciuti sconosciuti, o meglio, sconosciuti conosciuti.
Iniziai a riflettere: mi sono sempre piaciuti i balli in maschera, e non tanto perché le maschere coprono ogni difetto e risaltano tremendamente gli occhi, e nemmeno per il senso di sicurezza che si prova ad indossare qualcosa sul viso; ma perché per una sera ci si può sentire delle moderne Cenerentole alla ricerca del principe azzurro, o come nel mio caso, dell’angolo bar. È paradossale, perché si pensa che lasciando trasparire solo gli occhi e coprendo i difetti con pizzo e strass, si possa far finta per poche ore di essere persone diverse. Forse è il motivo per cui mi sono sempre piaciuti Halloween e carnevale: una sera in cui dimenticare sé stessi, il naso troppo grosso, il brufolo che sta spuntando e i capelli troppo fini, le occhiaie date dalle notti insonni e i segni dello stress; e diventare grazie a un tocco di pennello una creatura diversa, cattiva o meno, che può fare cose incredibili e alla quale non importa di come reagiranno alla sua vista le altre creature nella stanza. Ma sotto la maschera, possiamo davvero essere persone diverse? Nascondiamo davvero i difetti? O piuttosto li accentuiamo condendoli con la libertà di sentirci noi stessi, per una volta privi di paure e di ansie da reazione? Le maschere lasciano scoperti solo gli occhi, che accentrino tutta l’attenzione sui veri noi stessi, sulla nostra anima? Che finalmente, ci mostrino davvero al mondo?

Forse il vero paradosso, quello che mai nessuno è riuscito a risolvere, non è quello di Achille e la tartaruga che, per inciso, è facilmente risolvibile con la tartaruga a conoscenza del segreto del tallone dell’eroe, con una pistola carica e capace di mirare il punto giusto e arrivare tranquillamente al traguardo dopo essersi fermata a bere un caffè e a fare un selfie con l’eroe zoppicante. Il vero paradosso irrisolvibile è il seguente: perché passiamo le nostre giornate a creare maschere e muraglie invisibili e riusciamo ad essere noi stessi solo con addosso una maschera concreta e visibile? Seguendo la dimostrazione matematica dovremmo prima di tutto dimostrare che l’asserzione sia vera, quindi, partiamo da semplici esempi, che non considereremo assoluti. Continuamente creiamo e cerchiamo di proiettare un’immagine perfetta di noi stessi: ci vestiamo in modo da valorizzare i punti forti e coprire, o per lo meno smussare, i punti deboli, parliamo di argomenti che conosciamo alla perfezione e cerchiamo di evitare quelli spinosi, ci comportiamo in modo politicamente corretto e cerchiamo in tutto e per tutto di soddisfare le aspettative dell’essere pensante che ci sta di fronte; e la cosa peggiore è che il 90% della popolazione mondiale nemmeno si accorge di questo continuo processo di restyling, che rimane per lo più inconscio e normale. Siamo spinti, continuamente e incessantemente, a ricercare un’idea di perfezione, a modellare noi stessi in base ad aspettative e “must”, a nascondere patologicamente ogni linea che ci contraddistingue e potrebbe farci sembrare un abominevole mostro al di là della massa. Lo facciamo a livello estetico, lavorativo, relazionale; non mostriamo i nostri sentimenti per paura di un rifiuto, del dolore, di una mancata accettazione. Creiamo muri con l’illusione di proteggerci, calibriamo le parole, i gesti, abbiniamo perfettamente ogni frase ed ogni reazione, sopprimendo pensieri troppo “strani”, sentimenti “affrettati”, opinioni “alternative”, comportamenti “inadeguati”. E così, senza nemmeno accorgercene viviamo con un’impermeabile maschera sul volto, tra mura indistinte e mutevoli, corazze super equipaggiate, e occhiali da sole di colori diversi, che ognuno sceglie e modella in base alle proprie esigenze, ma che nessuno si rifiuta di indossare. Un carnevale continuo, incessante; un corteo di regine, giullari, bamboline che si destreggiano tra uffici, social network e magnifici resort, un circo eterno che nonostante le diverse figure ne esclude sempre una: l’uomo, con le sue paure e i suoi errori. Forse aveva ragione la Fallaci, quando scriveva una disarmante verità in troppe poche parole per essere presa sul serio: essere liberi è un DOVERE, prima che un diritto. È più difficile cambiare corrente e spogliarsi, lasciando che il mondo osservi e critichi le nostre cicatrici, è più difficile mostrare un’anima che un cappotto Dolce e Gabbana, è più difficile buttarsi nel vuoto che godersi il panorama dalla cima di un grattacielo; è più difficile commettere errori, è più difficile accettare che possiamo, dobbiamo, commettere errori, è più difficile amarli che criticarli. La storia ha dimostrato che tutti i muri prima o poi cadono, tranne uno: quello che ci separa da una vita vera, fatta di rischi e dolori ma che, per quanto più insicura e terrificante, ci separa da una vita altrettanto più bella e più intensa. Siamo davvero liberi? No, non lo siamo, ma possiamo decidere di esserlo.  

mercoledì 13 gennaio 2016

(S)blocchi esistenziali complicatamente indecisi

Eternamente indecisi, ma eternamente in movimento
L'autrice 
Vi è mai capitato di iniziare a scrivere qualcosa e bloccarvi? Un tema, un articolo, un biglietto di auguri, la lista della spesa; non importa cosa fosse, fatto sta che arriva un momento in cui la testa sembra vuota e dove pare che ogni pensiero sia scappato via come un uomo davanti alla prospettiva di un pomeriggio di shopping durante il mese dei saldi. Non si capisce bene se sia per colpa di troppe paranoie che affollano la testa o di una mancanza di idee, ma all’improvviso ogni frase che si prova a mettere nero su bianco assume un tono neutro e inadeguato, come se nonostante la grammatica perfetta ci fosse qualcosa che non funzionasse. Il problema è che questo dannato qualcosa non si aggiusta spostando una virgola o rispolverando un sinonimo che nemmeno Dante Alighieri userebbe, ed il secondo problema, che viene inesorabilmente in coda, è che nonostante le pause, le sigarette ed i minuti di riflessione non si viene a capo di quale sia la causa di questo male. Non che le cose da dire manchino, non che non si sappia scrivere, però tutt’a un tratto qualsiasi insieme di parole sembra stupido ed irrilevante e ci si rende conto che non è la scrittura ciò che non torna, ma il suono delle proprie parole mentre le si rilegge. Si vuole scrivere, si conosce esattamente l’argomento di cui si vuole parlare, si ha tempo, quiete ed un computer davanti eppure ci si trova ad un punto morto, che non sembra voler portare da nessuna parte, nemmeno al cimitero.
Per una donna, è un po’ come quelle sere in cui l’ora di preparazione usuale prima di un’uscita si duplica immediatamente dopo aver aperto l’antina dell’armadio e aver realizzato che anche quella sera sarà una dura battaglia con la modella che si vorrebbe essere ed il riflesso nello specchio che, proprio quel giorno, è troppo gonfio per un vestitino e troppo basso per un paio di jeans. Hai migliaia di vestiti eppure nessuno ti sta bene, o meglio, nessuno di quelli ti convince: il nero ti fa sentire grassa, il rosso è troppo scollato, il corallo è troppo estivo ed il bianco troppo trasparente per una serata con le amiche, il giallo ti fa sembrare l’ape maia e il verde speranza… magari nella speranza di uscire in orario puoi fartelo andare bene, ma decisamente devi comprare qualcosa di nuovo. Così succede con le parole, scrivi frasi, le cambi, poi cancelli, riscrivi, ti blocchi, sigaretta, un’altra frase, e alla fine scriverai qualcosa, ma quell’articolo rimarrà sicuramente nella categoria di quelli usciti male, che se potessi non pubblicheresti nemmeno. Dopo la terribile constatazione del “non ho niente da mettermi” ognuno ha collaudato la propria reazione: c’è chi fissa l’armadio per dieci lunghi minuti sperando che il gatto ci entri e come per magia faccia cadere il vestito perfetto, chi si precipita a sfogliare riviste di moda alla ricerca di un’ispirazione, chi fruga nell’armadio della madre, chi decide di non uscire e chi rimanda il problema iniziando dal trucco; ma nonostante le diverse guide alla sopravvivenza auto redatte sappiamo che nessuna di noi è e sarà mai immune alla tragedia. Allo stesso modo succede con gli scrittori: c’è chi fissa la pagina bianca di word, chi accende la radio, chi esce a farsi una passeggiata e chi, più realistico e memore delle lezioni di Baudelaire, sostituisce la tazza di the che accompagna i suoi momenti di riflessione con i bicchieri di vino.  Come per la crisi del guardaroba e la crisi di mezza età, si dice che sia un male con cui ognuno si scontra nel corso della vita, e a cui ognuno trova una soluzione diversa,  perchè pare che non esista un prontuario a riguardo. E così, un po’ come per le relazioni amorose, ognuno trova il proprio antidoto solo una volta che ci si trova davanti e si decide a vincere la battaglia. Ripensandoci il blocco dello scrittore esiste in qualsiasi aspetto della quotidianità: ci sono momenti nella vita in cui tutto è confuso e tra nebbie di preoccupazioni e montagne di paure non riusciamo a trovare qualcosa di sensato da dire, da fare, anche solo da pensare. Momenti in cui la distanza tra noi e un obbiettivo non è molta, ma il vero ostacolo sembra essere capire quale sia il piano perfetto da attuare e soprattutto, tra la miriade di genialate e furbizie, da dove cominciare.  Così ci si trova lì, indecisi, confusi, e  bloccati.
Ma se l’uomo è riuscito a volare, ad andare sulla luna, a creare congegni tecnologicamente complessi come i computer, ad addomesticare le tigri, e a fare dei pantaloni con i risvoltini una moda maschile; com’è possibile che ancora non siamo riusciti a scoprire le regole per superare Situazioni Esistenziali
Complicatamente Indecise? Possiamo pagare le bollette con un click ma non siamo capaci di buttarci a parlare con uno sconosciuto, possiamo parlare e vedere chi sta dall’altra parte del globo, ma non siamo capaci di affrontare il rischio di un rifiuto, possiamo addirittura cambiare il nostro genere ma non siamo capaci di guardare alla gentilezza senza secondi fini.  Siamo davvero una generazione di stupidi viziati, nati con la camicia, Gucci per di più, tra le comodità del dopo guerra? Forse abbiamo solo bisogno di svegliarci, liberarci dalle paure e lasciare che la vita ci blocchi continuamente, per scrivere da noi le 10 regole di come vincere il blocco, e ripartire a mille. Rettifico, forse gli articoli che nascono dai blocchi andrebbero catalogati nella categoria “migliori”.


venerdì 8 gennaio 2016

E vissero per sempre... cercando il tasto RESET

per gentile concessione di me stessa
In questo periodo dell’anno è tanto in voga la fatidica frase “anno nuovo, vita nuova”; te la ripeti ogni giorno mentalmente quando ti guardi allo specchio, la trovi scritta nelle descrizioni dei  selfie delle amiche su facebook, la usi per giustificare un acquisto insolito e la ritrovi negli spot che ti invitano a cambiare abitudini, ma mi viene spontaneo chiedermi: questa frase funziona davvero?
Chi scrive, ama la festa di capodanno perché la vede come una bella doccia calda dopo una giornata in cui ci si è persi sotto la pioggia e si torna a casa inzuppati e infreddoliti con una bella dose di (dis)avventure da raccontare o, per lo meno, a cui pensare mentre davanti allo specchio ci si stropiccia il volto chiedendosi come sono possibili certe occhiaie. Una bella doccia calda e ci si sente rinati, rinvigoriti e di nuovo speranzosi in una giornata migliore dopo una bella dormita. Solo che poi magari capita di non riuscire a dormire, e tutte le nuove speranze vengono vanificate da una notte senza sogni, ma almeno anche senza incubi. Ecco, questo per me è l’inizio di un anno nuovo: una doccia calda rinvigorente che permetta di cancellare ciò che c’è di brutto nel passato e ritornare alla vita con una nuova carica. Questo per lo meno è ciò che pensa il mio io sognatore, ma il suo coinquilino, quello cinico, continua a chiedersi: può una serie di numeri detti al rovescio far sparire per magia gli sfortunati eventi che si sono susseguiti nei 365 giorni precedenti? Ovviamente no, non può. E allora come funziona, dal momento che nessuno ci ha dotato di un cancellino magico? Come si cambia davvero? Si inizia dal look, tra nuovi tagli di capelli che mai ci saremmo proposti di fare, un nuovo colore, nuovi piercing e nuovi tatuaggi; e per fortuna a gennaio ci sono i saldi, quindi al tutto potremmo aggiungere anche un totale cambio di stile, così che da un anno all’altro si passi dal “prima” al “dopo” di ‘ma come ti vesti?’. Cambio di disposizione dei mobili, cambio della dieta alimentare, cambio della foto profilo, cambio della pittura della parete, riassetto totale di tutto ciò che ci circonda nella frenetica ricerca di capire dove si nasconda il magico pulsante RESET, che nonostante i nostri sforzi non riusciamo a trovare. Fino a che ci si guarda allo specchio, ammiccando a quella fantastica “nuova me”, e riconoscendo che sotto un fondotinta diverso, dietro al poncio di pelliccia che avremmo giudicato troppo eccentrico giusto qualche giorno prima, e dietro alla sostituzione degli amati jeans con le fastidiose collant velate, la nuova e la vecchia sono la stessa persona. Ed ecco il panico, che ci assale come quando dopo aver seguito scrupolosamente una ricetta ci si rende conto che la torta è venuta da schifo; non panico, frustrazione, e ci si ripete continuamente dove e quando abbiamo sbagliato, come sia potuto accadere, entrando così nel vortice delle domande autolesioniste a cui mai riusciremo a rispondere. Con gli occhi bagnati di malinconia e senso di nullità, si è costretti infine a riconoscere che nonostante tutte le più geniali idee di cambiamento, non è stato fatto nessun passo avanti; e allora, dov'è la vita nuova tanto promessa? Nonostante i propositi spuntati, la mezz'ora di tapis roulant al giorno e la dedizione ad un nuovo, o ritrovato, obbiettivo, le paure rimangono le stesse, dalle ferite sgorga ancora sangue e le botte continuano a fare male. E allora dov’è il punto? Dov’è la svolta? Come si gira quella dannata pagina?

Forse le pagine non si voltano, forse non si riscrivono, forse un anno nuovo non cambia la vita tramite una formula magica, forse un brindisi non basta a sancire la fine. Forse quella pagina dovremmo tenerla aperta, rileggerla respirando, continuarla, e scrivere un adeguato finale. E forse, la vita nuova è accettare questa semplice verità: possiamo cambiare i capelli, la nostra pelle ed il nostro look, e questo potrebbe farci stare davvero meglio in qualche modo, ma non possiamo cambiare ciò che siamo e siamo stati con piastra e mascara. E magari questo è un lato positivo, perché se fosse così facile cambiarsi allora tutti i nostri errori, tutte le nostre speranze, tutti quei brutti finali e quei “vissero per sempre felici e contenti” trasformati in “e vissero per sempre in un appartamento pieno di gatti e liquori” sarebbero stati tremendamente vani. Se fossero così facili da cancellare, probabilmente sarebbero stati meno veri, meno intensi, meno nostri.  E nonostante cambiare possa essere la nostra unica ancora di salvataggio, forse per cambiare davvero dovremmo paradossalmente accettare che non possiamo ancora farlo, e vivere in pace con noi stesse fino a che ci sveglieremo e, nei nostri soliti jeans, ci renderemo conto di essere persone totalmente diverse. 

venerdì 1 gennaio 2016

L'ultima Luna - un racconto nel cassetto, un nuovo anno perfetto

“Dieci, nove, otto…”. Le voci riempivano l’aria scura, urlavano, piene di carica come se davvero quel tono potesse chiamare loro tutta la felicità possibile per l’anno nuovo. Urlavano, perché ci credevano, che qualcosa potesse migliorare, che quell'anno avrebbe potuto sorprenderli, che tutte le loro vite sarebbero potute semplicemente diventare perfette, in un colpo di bacchetta, in uno schiocco da un secondo a quello successivo. Urlavano, come se qualcuno dall’altra parte del mondo, dall’altra parte del cielo, potesse davvero sentirli. C’era un miscuglio di speranza, rancore, grinta, combattività e tenacia in quei suoni, e la luna, tonda come un’enorme perla nell’oscurità, le ascoltava pacata. Quel countdown era un’eterna voglia di andare avanti, di non fermarsi, di non chinare il capo, voglia di scoprire, voglia di credere, voglia di essere una anno più vicini alla morte affinché ridendole in faccia la risata si sentisse più forte. Era una notte magica, una notte unica, in cui forse davvero tutto poteva cambiare.

Gin staccò gli occhi dalle luci psichedeliche, dagli sguardi che ogni tanto incrociava per un movimento di testa, dai corpi che frenetici cercavano di andare a ritmo, unendosi in un unico impavido organismo; dalle braccia che si agitavano, dai capelli che dipingevano onde sinuose nell’aria, dai piedi che battevano il suolo come stessero pestando l’uva. Smise di ascoltare quella musica rimbombante e afferrò la mano di Kate: “Ehi! Che ore sono?”. Kate continuava a ballare, cantando quella canzone assordante, immersa nel suo mondo di sensualità e seduzione, mentre con la mano prendeva il cellulare nuovo di zecca e gli lanciava uno sguardo: “Manca un quarto d’ora alla mezzanotte!”. Gin sorrise, si avvicinò all’amica quasi in un abbraccio, affondando il naso in quella bellissima chioma rossa indomata, e con voce elettrizzata sussurrò: “ Dobbiamo andare alla macchina!” Kate la guardò accigliata; gli occhi grandi, marroni come le castagne e colorati sulla palpebra di un pizzico d’oro, in quel buio interrotto da fasci di luci colorate, sembravano grandi come quelli di un bambino meravigliato, dolci come quelli di un cerbiatto, profondi come quelli di una maga che conosceva i segreti del mondo. E Kate era davvero così: era una bambina, che saltava e l’abbracciava quando riceveva un regalo o una bella notizia, una piccola che tutta tronfia entrava in casa di Gin con una torta e che mentiva con voce stridula dicendo di averla fatta lei, con un’ingenuità così tenera, che poi entrambe si mettevano a ridere perché Kate, confessava, aveva solo aiutato, aveva passato gli ingredienti. Come i bambini sbuffava, urlava, sbatteva i piedi e faceva i capricci, ma poi, chiedeva scusa e tendeva i mignolo per fare la pace. Kate era dolce: sotto la sua maschera di freddezza e cinismo, decorata con fierezza ed egoismo, c’era una ragazza che sapeva piangere, che sapeva sentire, che guardava ogni minimo dettaglio come quando si cercano i cocci di un bicchiere, anche i più minuscoli, per paura di tagliarsi. Lei era quella che al compleanno di Gin scriveva storie bellissime, quella che dopo un esame portava i biscotti per festeggiare, quella che la aiutava ad addobbare l’albero di Natale, ad andare a fare la spesa, e quando l’amica stava male si presentava a casa sua armata di bustine di tè, regali, un po’ di liquore al cioccolato, e un enorme sorriso comprensivo. Kate era anche una maga, perché lei le magie le conosceva tutte, o per lo meno quelle per Gin. Sapeva come tirarla su di morale, come darle forza, come renderla felice, conosceva i giusti incantesimi per ogni male, la giusta serie di parole, di gesti. Sapeva come smascherare un fottuto egoista che stava rubandole il cuore, sapeva come guardare il mondo, l’arte, sapeva come giocare nel loro castello incantato. sapeva la parola magica per far scattare in lei quella tremenda voglia di vivere, di combattere, di alzare la testa e fare a pugni con il futuro. Adesso però, in tutta quella baldoria del martedì notte più importante di tutto il 2013, Kate sembrava non capire. Allora Gin continuò, quasi in un soffio di parole: “Te l’avevo detto che avevo preparato una magia! Dai andiamo!”. Kate abbassò giusto un po’ il viso, annuì leggermente, e con un sorriso soddisfatto fece dondolare le chiavi della macchina davanti agli occhi azzurri dell’amica, che ricordavano il mare del polo. Bastò uno sguardo, e risero all’unisono, prendendosi la mano e facendosi largo tra la folla, dirette verso l’uscita.

Il parcheggio era una lunga distesa d’asfalto. Nel lato est, dove le ragazze avevano parcheggiato, regnava la solitudine: nessuna macchina e un silenzio totale, così che quel pavimento ricordasse un mare calmo di petrolio, pece e catrame, ogni tanto frastagliato dalle righe che delimitavano i parcheggi, creste bianche di onde pacifiche che in una notte d’estate si lasciano manovrare dai fili invisibili della Luna. Faceva freddo, non tanto come le sere precedenti, ma l’aria pungeva sulle gambe nude delle ragazze, sembrava che tanti spilli facessero loro uno strano massaggio, qualche brivido di godimento e poi un po’ di dolore. Sembrava che i folletti, usciti dagli alberi che circondavano il mare nero, con i loro minuscoli archi e le loro minuscole spade avessero deciso di attaccare le due regine. Loro, impavide e testarde come principesse guerriere, continuavano ad avvicinarsi alla polo, con mento alto e passo regale, aggraziate come ballerine e forti come lupi bianchi. Anche loro, come i lupi, ululavano alla luna, la invocavano, la osservavano e la rendevano uno spirito sovrano dei loro sogni. Quella notte poi, quasi per un segno del destino, lei sembrava davvero la sovrana del cielo, che con quel bagliore perlato faceva danzare la loro anima, brillare i loro occhi e battere i loro cuori, in simbiosi. Anche Gin e Kate, come quei cani selvaggi e misteriosi, viaggiavano sempre in branco, sempre loro, da mesi, da anni, dall’eternità. Ogni tanto qualcuno si aggiungeva, qualcuno cercava di assaporare per un po’ quel tutt'uno di aggressività ed eleganza, qualcuno le portava a bere qualcosa, qualcuno le faceva ballare, qualcuno le faceva piangere, qualcuno cercava di separarle, ma loro erano il loro branco, quello che non si può abbandonare. L’altra metà della mela, lo ying e lo yang, la sabbia e le onde, il cielo e le stelle, la cannella e lo zenzero, la noce e il suo guscio: inseparabili, nemmeno a kilometri di distanza, perché ormai non esisteva altro che un noi. Erano le braccia in cui correvano per piangere, le mani che sistemavano quel ciuffo che cadeva sull’occhio, gli occhi da cui correre a cercare riparo, gli occhi in cui immergersi per sognare; sogni totalmente diversi come montagna e pianura, ma sognati insieme. Avevano deciso di lasciare che i ragazzi fossero solo compagni di giochi, ma l’amore, quello che dona libertà e forza, l’avrebbero tenuto solo per loro, fino a che qualcuno non sarebbe stato davvero degno di condividerlo.
La musica del silenzio, così inebriante quasi da accarezzare il viso come le carezze di quei pardi che mai avevano avuto, fu interrotta dalla voce di Kate: “Ginevra, hai visto che luna?! È bellissima, grande, pallida, brillante. È la nostra!” Gin sorrise, guardava con quel viso roseo la sua amica, sembrava sapere che qualunque cosa potesse pensare era come dirla ad alta voce, erano sempre state sulla stessa lunghezza d’onda, due antenne perfettamente sintonizzate. “Si Kate, è bellissima!”. Non fecero in tempo ad arrivare alla macchina che Gin si tuffò nel bagagliaio dell’auto, aprì il borsone nero che per tutto il viaggio aveva trattato come lo scrigno dei segreti, e ne estrasse due buste di plastica trasparente, che lasciavano vedere solo un quadrato di quella carta ruvida e sottile, che sembra quasi stoffa. Le piantò in mano all’amica e continuò a rovistare: “Gin, cosa sono?” “Sono delle lanterne cinesi, ed ecco qua: accendino e pennarello!” Si voltò, mostrando soddisfatta gli aggeggi che si era procurata, come in una pubblicità, sorrideva gentile e mostrava i prodotti, come se fossero tesori che solo loro possedevano. E in un certo senso era così, il loro castello era pieno di tesori, perché in un pennarello sapevano vedere una bacchetta magica con cui materializzare i pensieri più profondi, in una candela sapevano cogliere l’energia che faceva vibrare la fiamma, in una sigaretta l’importanza del silenzio, della pausa, della tranquillità, nel suo fumo lo spirito del mondo. Sapevano ascoltare ciò che i grandi pini potevano raccontare, storie di eroi e di streghe malefiche; sapevano leggere su una nuvola i pensieri degli amanti divisi, sapevano cogliere nella terra i semi della felicità: per questo, loro erano speciali. “Bene Gin, e con questo ora cosa ci faccio?” “Kate piantala con le domande stupide! Cosa vuoi farci? Aprila, è ovvio!” entrambe ridevano, mentre scartavano quei regali così inusuali, quei regali che potevano significare nulla, ma per loro significavano tutto. “Ora devi scrivere qualcosa sulla tua lanterna, un nome, una citazione, una preghiera, quello che vuoi insomma…” “Ok!”. Kate prese il pennarello e iniziò a fissarlo, fino a che con l’espressione di un contadino che si scopre un genio iniziò a scrivere. Gin era attonita. Così tanti pensieri le vibravano in testa, facevano a pugni e si prendevano a braccetto, ma nessuno di loro sembrava significativo. Erano tutti belli, profondi, suoi, ma nessuno era quello giusto. Nessuno era completo, emblematico, adatto per portare il suo messaggio all’universo. Era confusa, in panico, aveva progettato quella sorpresa per giorni, comprato le lanterne, studiato ogni minimo dettaglio, però si era dimenticata della frase. Pensava che le sarebbe venuta di getto, confidava nel suo istinto felino che non l’aveva mai tradita eppure ora si trovava immersa nel vuoto più confuso, gli occhi persi nel blu pesto, e le dita che tamburellavano sulla carrozzeria della macchina; cercando qualcosa, un segno, una lucina, un suggerimento. Guardò la luna e si ricordò, era così semplice, come le tabelline e l’abc, come un piatto di pasta con un po’ d’olio, semplice come un cavallo bianco che corre nella brughiera, così semplice da diventare ovvio, e a volte inafferrabile. Ma era sempre stato così, l’aveva sempre saputo, l’aveva sempre osservato, quel precetto che dentro di lei viveva e germogliava, quello che l’anima le diceva ogni giorno, quello che la luna le aveva appena suggerito. Voleva urlare dalla gioia, ma si limitò a scrivere sulla sua lanterna: “chiedi, CREDI, avrai. Sono sempre i sogni a fare la realtà.” Ecco quella era Gin. Sogni: ad occhi aperti, nel letto, guardando un fiume, una fotografia, sfidando tutti i giorni l’impossibile nonostante tutto e tutti, in ogni minuto a sguainare la sua Excalibur contro la razionalità, la normalità e l’obbiettività. Sono sempre i sogni a fare la realtà, una contraddizione, quanto Gin. Lei che era fuoco e acqua, forte come una roccia ma sensibile quanto una ferita aperta. Lei che voleva il tutto, ma guardava i dettagli; lei come il profumo dei dolci, goloso quanto nocivo, inebriante quanto caldo, quasi da scottarsi. Burrosa e croccante, dolce e amara, come il cioccolato fondente. Era l’irriverenza, la trasgressione ma poi la dolcezza, sempre a modo suo, quando decideva di voler lasciare un segno indelebile, quando voleva farsi ricordare per sempre, quando voleva diventare droga. Gin: così sicura di sé da confondere, e così confusa da avere sempre delle idee chiare, per quanto strambe, per chi vivesse con la mente e non con lo spirito. Gin, così impenetrabile e così limpida, così incapace di lasciare andare le persone a lei care, così selettiva e dura, così brava a sbattere le porte in faccia a ch per lei era nulla. Forte come un’amazzone, altezzosa come una regina, libera come una zingara, misteriosa come una maga, beffarda come un folletto, leggera come una fata.
“fa vedere!” la voce di Kate la fece trasalire. Gin, soddisfatta, mostrò la lanterna: sapeva che Kate avrebbe capito, sapeva che non sarebbero servite altre parole e il sorriso limpido dell’amica lo confermò. Poi guardò la lanterna di Kate, e lesse: “siamo la Montblanc, con cui ti faccio fuori, siamo la risata dentro il tunnel degli orrori.” Sorrise e guardò l’amica, quel viso di porcellana, quel corpo minuto ma perfetto, quell’espressione di pace. Ligabue doveva conoscere Kate, doveva essere andato a studiarla nel sonno o doveva averla spiata mentre andava a scuola, perché quella frase era Kate. Era la sua forza e la sua profondità, quella strana capacità di leggere tra le righe, vedere oltre la foschia, riuscire a scorgere, come un rapace notturno, quello che un cespuglio spinoso nascondeva. Erano i suoi pensieri profondi, i suoi schemini insensati, i tratti fini con cui disegnava, l’importanza che dava a ogni singola parola, e perciò non le sprecava. Era la sua solarità, quella voglia di vivere, ballare e correre su spiagge di corallo. Quel sorriso che illuminava la stanza quando entrava, quella risata che diventava una dolce melodia, che penetrava l’anima e la attraeva a sé. Quella era Kate, in tutto il suo splendore.
Le ragazze sorridevano, illuminate dalla luce fioca dei lampioni, sparsi qua e la come papaveri in un campo di grano, Gin sistemò la miccia della sua lanterna, poi preparò anche quella di Kate, e le posò a terra, davanti a loro. “allora siamo pronte, manca solo lo scoccare della mezzanotte! Kate, guarda l’ora!” “mancano tre minuti, ci sediamo?” “per terra?” “si! Per terra!”. E si ritrovarono li, sedute a gambe incrociate come fatine sui funghi, con la sigaretta in mano che parevano indiani intenti a fumare il kalumè della pace, davanti al barlume di luce che stavano per regalare al mondo. Se si tendeva l’orecchio si riusciva a percepire la musica della discoteca, e a volte, gli urli di qualche fumatore che, troppo ubriaco, uscito per concedersi al suo vizio, comunicava al mondo messaggi incomprensibili. Davanti a loro le stelle, quei puntini di luce che sembravano gli occhi degli angeli. E la luna che sembrava la luce infondo al tunnel, la speranza dopo la disperazione, la tanto agognata e attesa via d’uscita. I pini neri svettavano rigidi verso la grande perla, e ogni tanto, quando il vento iniziava a cantare si impegnavano in una danza di contemplazione, quasi un rito esoterico, per rendere omaggio alla loro dea. “Kate, ci credi?! È l’ultima luna del 2013! Si rinizia ancora una volta…” “Io e te, te ed io. Solo e sempre noi.” “Già, meno male che ci siamo noi”. “Però Gin, se ci pensi, la luna è sempre la stessa, anche se gli anni passano. Tra meno di un minuto scatterà il 2014 ma l’astro che vedremo non sarà diverso da quello che abbiamo davanti adesso!” “No Kate, devi guardare oltre. Razionalmente forse è lo stesso, ma tutto muta profondamente. È lo spirito che cresce, il fiume del divenire, quella sottile linea tra un anno e un altro, tra un giorno e quello seguente, quel vuoto del tempo, quell’attimo in cui tutto può cambiare! Questa luna tra un minuto avrà una posizione diversa, nonostante l’occhio non lo possa percepire, avrà un influsso diverso su chi nascerà in quel momento, le farà da madre o da amante, o forse da musa. Guarda oltre Kate!” fissavano la luna, si immergevano nella sua luce pallida e perlata come potesse donare vita, energia. Ne respiravano il profumo impalpabile, sfioravano con le dita la polvere cosmica, e osservavano quelle stelle, che sembravano brillare a intermittenza, salutarle con un timido ciao che solo chi un po’ se ne intendeva di magia poteva intravedere. I loro occhi rispondevano con un luccichio, le bocche si incurvavano e i capelli si univano alla danza delle cime degli abeti, lasciandosi dolcemente cullare dal vento. Erano attratte, fatalmente, come il ferro da una calamita. In quella notte erano diventate proprietà della luna, sua incarnazione, legate profondamente da un abbraccio invisibile a quell’enorme occhio bianco che dominava con forza il blu scuro. Erano parte di lei, e lei parte di loro.

“Dieci, nove, otto…” La voce di chi aveva deciso di brindare con il cielo allo scoccare della mezzanotte arrivava fino a lì, e Gin, con un gesto frenetico, accese una miccia dopo l’altra. “…Sette, sei, cinque” Kate prese la mano dell’amica, era entusiasta, talmente emozionata che una goccia di rugiada faceva capolino nei suoi occhi, guardò la lanterna che si gonfiava tirando verso l’infinito il filo sottile che teneva saldo in mano. Poi guardò Gin, uno sguardo intenso, uno sguardo che non lasciava spazio a discorsi, uno sguardo che le univa, le stringeva e plasmava le loro anime in un unico spirito, e capirono che stava arrivando. “… Quattro, tre …”. Parlarono all’unisono, come se d’un tratto si stessero liberando del veleno: “Ora!” e lasciarono andare le lanterne, che lente si libravano verso l’eternità, come se prima si volessero godere il panorama. Tutti quegli esserini sempre più minuscoli, che si affaccendavano in festeggiamenti, lavori, abiti firmati e la ricerca di una felicità materiale che non sarebbe mai arrivata. E loro, nella loro piccolezza, non riuscivano a vederlo quanto quel mondo fosse fantastico, speciale, pieno di magia e felicità, per chi avesse saputo trovarla. Le lanterne oscillavano, si univano alla danza dei capelli delle ragazze, delle cime dei sempre verdi; si lasciavano trasportare dal vento, catturare dalla luna, ora facevano parte del tutto, quel tutt’uno di magia che era la forma dell’universo. Le lanterne se ne andavano, trasportando nella loro luce arancione i sogni di Gin, i desideri di Kate, due fiammelle di vita pura.   Anche Gin e Kate iniziarono a urlare “…due! Uno!!!” quasi come per far arrivare le loro voci alle lanterne, alla luna, a quell’universo che le immergeva a volte come un abbraccio, e a volte come un cappio. “Buon anno!!” si saltarono al collo, si abbracciarono e iniziarono a saltellare, quando Kate si staccò e disse ridendo: “ma lo sai che quello che abbiamo appena fatto è illegale?” “si Kate, lo so! Questa società vuole impedirci anche di sognare, perché i sogni sanno darti più forza del dolore, sono peggio del doping, ti rendono capace di amare, di volare nel cielo, di apprezzare ogni singola foglia e ogni singolo sguardo. I sogni rinvigoriscono, rimangono giovani, e ti lasciano quelle scintille negli occhi, quelle capaci di guarire l’anima di chiunque ti stia vicino anche solo per poco, quelle che sconfiggerebbero anche un drago. E loro vogliono impedirci di sognare davvero, di sognare l’impossibile, di fare gesti avventati, di chiudere la ragione in un profondo pozzo, di ammanettare la paura e di tendere all’infinito. Perché è più comodo avere una serie di teste abbassate, piuttosto che il sole negli occhi!” “e noi, Gin, li abbiamo battuti ancora una volta, perché noi siamo il sole!” “già, e ora stiamo volando su nel cielo, e regalando un pizzico di luce in più a questa notte oscura, un nuovo desiderio da esprimere a chi guarderà verso il cielo.” E così salutavano le preghiere che avevano affidato a quelle piccole mongolfiere luminose, così salutavano quel 2013, così maledettamente triste, così estenuante, così terribile, ma che forse era stato una benedizione. Gin si immergeva nell’aria, con occhi assorti e il cuore aperto: “ Kate secondo te cosa simboleggia la luna?” “ è la femminilità, la ciclicità della natura delle cose, il karma, la magia, la fascinazione. La luna è donna, quella vera, quella con la d maiuscola, che tutto domina e tutto attrae”. “ma la luna è anche rinascita, perché ogni mese attraversa le sue fasi e da una triste mezzaluna si passa a questa maestosa regina, che tutti i mesi cresce e sboccia come un fiore a primavera, come la fenice dalle sue ceneri. Io penso che dobbiamo ringraziarla per ciò che ci ha donato nell’anno passato. È vero, ci ha fatto soffrire, ci ha svuotato, ci ha ucciso ma adesso stiamo rinascendo anche noi. Abbiamo imparato molto e inizieremo questo nuovo 2014 con nuove consapevolezze. Ora so che vale sempre la pena rischiare, senza soffermarsi sui guai che si potrebbero combinare, su quanto potrebbe essere pericoloso o avventato. Ho imparato che bisogna sempre girare con il cuore aperto perché l’amore si nasconde dietro ogni cosa, e soprattutto perché qualcuno potrebbe aver bisogno di cure, di un riparo, di un po’ di caldo, e solo in quel piccolo muscolo si può offrire tutto ciò. Ho imparato che non si deve mai smettere di lottare, anche quando tutto sembra crollarci addosso: si può guardare il soffitto solo per una sera, ma il giorno dopo bisogna spostare le macerie, per lasciare spazio a ciò che arriverà. Ho imparato che la vita può fare male, colpire all’improvviso, ma così come le cose brutte anche quelle belle arrivano quando meno te lo aspetti. Ho imparato che non c’è nulla che non si possa sopportare se ci si è costruiti una barriera di cuori, che battono all’unisono, l’uno per l’altro, e che non si dilegueranno mai. Ho imparato che si può chiedere aiuto, perché da soli non si risolve nulla, e ho imparato che chi vuole esserci c’è di sua spontanea volontà, senza che lo si chieda. Ho imparato che può esserti tolta una persona, che può sparire dal mondo per un motivo stupido e che la consapevolezza che non potrai più sentire la sua pelle calda ti logora ogni notte, ho anche imparato però che parlare con le stelle dicendo il suo nome può essere bellissimo, e che se stai un po’ attenta lo sentirai addosso in ogni momento. Ho imparato che non esiste l’impossibile, è una pura convenzione così come la normalità, e il dare del lei. Ho imparato che esiste qualcosa di magico che ci lega, una sorta di teoria degli spiriti affini, e quando questo arriva nemmeno la più grande distanza ci può fare paura: come succede tra di noi. Nemmeno un cataclisma, nemmeno le migliaia di situazioni che il dio caos potrebbe tessere ogni giorno, nemmeno il tempo, perché quando due spiriti si mischiano non c’è più via di scampo, non c’è più modo di dissolverli, i loro segni e le loro botte sul corpo dell’altro diventano indelebili. Ho imparato che tutto va come deve andare, e che a volte bisogna solo cercare di seguire il profumo che gli eventi si lasciano dietro, per vedere dove ci porterà. Ho imparato che quando la vita diventa beffarda l’unica cosa che puoi fare è cercare di ridere più forte di lei, e ho imparato che per quanti sogni possano venire infranti non si può mai arrendersi, o diventeremmo vittime della codardia, perché non possiamo mai abbandonare noi stesse. Ma la cosa più bella è che quando mi guardo allo specchio vedo la donna che ho sempre sognato di essere: forte, combattiva, che sogna per vivere e vive per sognare! Finalmente sono io, mi amo, finalmente mi sono trovata.” Kate sorrise, abbracciò la sua amica in una stretta mortale, calda ed energica, la guardò negli occhi e con voce soave disse: “benvenuta nel 2014 Gin! Nessun proposito quest’anno: solo vivere per rischiare e rischiare per vivere!”.