“Dieci, nove, otto…”. Le voci riempivano l’aria scura,
urlavano, piene di carica come se davvero quel tono potesse chiamare loro tutta
la felicità possibile per l’anno nuovo. Urlavano, perché ci credevano, che
qualcosa potesse migliorare, che quell'anno avrebbe potuto sorprenderli, che
tutte le loro vite sarebbero potute semplicemente diventare perfette, in un
colpo di bacchetta, in uno schiocco da un secondo a quello successivo.
Urlavano, come se qualcuno dall’altra parte del mondo, dall’altra parte del cielo,
potesse davvero sentirli. C’era un miscuglio di speranza, rancore, grinta,
combattività e tenacia in quei suoni, e la luna, tonda come un’enorme perla
nell’oscurità, le ascoltava pacata. Quel countdown era un’eterna voglia di
andare avanti, di non fermarsi, di non chinare il capo, voglia di scoprire,
voglia di credere, voglia di essere una anno più vicini alla morte affinché ridendole
in faccia la risata si sentisse più forte. Era una notte magica, una
notte unica, in cui forse davvero tutto poteva cambiare.
Gin staccò gli occhi dalle luci psichedeliche, dagli sguardi
che ogni tanto incrociava per un movimento di testa, dai corpi che frenetici
cercavano di andare a ritmo, unendosi in un unico impavido organismo; dalle
braccia che si agitavano, dai capelli che dipingevano onde sinuose nell’aria,
dai piedi che battevano il suolo come stessero pestando l’uva. Smise di ascoltare
quella musica rimbombante e afferrò la mano di Kate: “Ehi! Che ore sono?”. Kate
continuava a ballare, cantando quella canzone assordante, immersa nel suo mondo
di sensualità e seduzione, mentre con la mano prendeva il cellulare nuovo di
zecca e gli lanciava uno sguardo: “Manca un quarto d’ora alla mezzanotte!”. Gin
sorrise, si avvicinò all’amica quasi in un abbraccio, affondando il naso in
quella bellissima chioma rossa indomata, e con voce elettrizzata sussurrò: “ Dobbiamo andare alla macchina!” Kate la guardò accigliata; gli occhi grandi,
marroni come le castagne e colorati sulla palpebra di un pizzico d’oro, in quel
buio interrotto da fasci di luci colorate, sembravano grandi come quelli di un
bambino meravigliato, dolci come quelli di un cerbiatto, profondi come quelli
di una maga che conosceva i segreti del mondo. E Kate era davvero così: era una
bambina, che saltava e l’abbracciava quando riceveva un regalo o una bella
notizia, una piccola che tutta tronfia entrava in casa di Gin con una torta e
che mentiva con voce stridula dicendo di averla fatta lei, con un’ingenuità
così tenera, che poi entrambe si mettevano a ridere perché Kate, confessava,
aveva solo aiutato, aveva passato gli ingredienti. Come i bambini sbuffava,
urlava, sbatteva i piedi e faceva i capricci, ma poi, chiedeva scusa e tendeva
i mignolo per fare la pace. Kate era dolce: sotto la sua maschera di freddezza
e cinismo, decorata con fierezza ed egoismo, c’era una ragazza che sapeva
piangere, che sapeva sentire, che guardava ogni minimo dettaglio come quando si
cercano i cocci di un bicchiere, anche i più minuscoli, per paura di tagliarsi.
Lei era quella che al compleanno di Gin scriveva storie bellissime, quella che
dopo un esame portava i biscotti per festeggiare, quella che la aiutava ad
addobbare l’albero di Natale, ad andare a fare la spesa, e quando l’amica stava
male si presentava a casa sua armata di bustine di tè, regali, un po’ di
liquore al cioccolato, e un enorme sorriso comprensivo. Kate era anche una
maga, perché lei le magie le conosceva tutte, o per lo meno quelle per Gin.
Sapeva come tirarla su di morale, come darle forza, come renderla felice, conosceva
i giusti incantesimi per ogni male, la giusta serie di parole, di gesti. Sapeva
come smascherare un fottuto egoista che stava rubandole il cuore, sapeva come
guardare il mondo, l’arte, sapeva come giocare nel loro castello incantato. sapeva
la parola magica per far scattare in lei quella tremenda voglia di vivere, di
combattere, di alzare la testa e fare a pugni con il futuro. Adesso però, in
tutta quella baldoria del martedì notte più importante di tutto il 2013, Kate
sembrava non capire. Allora Gin continuò, quasi in un soffio di parole: “Te
l’avevo detto che avevo preparato una magia! Dai andiamo!”. Kate abbassò giusto
un po’ il viso, annuì leggermente, e con un sorriso soddisfatto fece dondolare
le chiavi della macchina davanti agli occhi azzurri dell’amica, che ricordavano
il mare del polo. Bastò uno sguardo, e risero all’unisono, prendendosi la mano
e facendosi largo tra la folla, dirette verso l’uscita.
Il parcheggio era una lunga distesa d’asfalto. Nel lato est,
dove le ragazze avevano parcheggiato, regnava la solitudine: nessuna macchina e
un silenzio totale, così che quel pavimento ricordasse un mare calmo di
petrolio, pece e catrame, ogni tanto frastagliato dalle righe che delimitavano
i parcheggi, creste bianche di onde pacifiche che in una notte d’estate si
lasciano manovrare dai fili invisibili della Luna. Faceva freddo, non tanto
come le sere precedenti, ma l’aria pungeva sulle gambe nude delle ragazze,
sembrava che tanti spilli facessero loro uno strano massaggio, qualche brivido
di godimento e poi un po’ di dolore. Sembrava che i folletti, usciti dagli
alberi che circondavano il mare nero, con i loro minuscoli archi e le loro
minuscole spade avessero deciso di attaccare le due regine. Loro, impavide e
testarde come principesse guerriere, continuavano ad avvicinarsi alla polo, con
mento alto e passo regale, aggraziate come ballerine e forti come lupi bianchi.
Anche loro, come i lupi, ululavano alla luna, la invocavano, la osservavano e
la rendevano uno spirito sovrano dei loro sogni. Quella notte poi, quasi per un
segno del destino, lei sembrava davvero la sovrana del cielo, che con quel
bagliore perlato faceva danzare la loro anima, brillare i loro occhi e battere
i loro cuori, in simbiosi. Anche Gin e Kate, come quei cani selvaggi e misteriosi,
viaggiavano sempre in branco, sempre loro, da mesi, da anni, dall’eternità.
Ogni tanto qualcuno si aggiungeva, qualcuno cercava di assaporare per un po’
quel tutt'uno di aggressività ed eleganza, qualcuno le portava a bere qualcosa,
qualcuno le faceva ballare, qualcuno le faceva piangere, qualcuno cercava di
separarle, ma loro erano il loro branco, quello che non si può abbandonare.
L’altra metà della mela, lo ying e lo yang, la sabbia e le onde, il cielo e le
stelle, la cannella e lo zenzero, la noce e il suo guscio: inseparabili,
nemmeno a kilometri di distanza, perché ormai non esisteva altro che un noi.
Erano le braccia in cui correvano per piangere, le mani che sistemavano quel
ciuffo che cadeva sull’occhio, gli occhi da cui correre a cercare riparo, gli
occhi in cui immergersi per sognare; sogni totalmente diversi come montagna e
pianura, ma sognati insieme. Avevano deciso di lasciare che i ragazzi fossero
solo compagni di giochi, ma l’amore, quello che dona libertà e forza,
l’avrebbero tenuto solo per loro, fino a che qualcuno non sarebbe stato davvero
degno di condividerlo.
La musica del silenzio, così inebriante quasi da
accarezzare il viso come le carezze di quei pardi che mai avevano avuto, fu
interrotta dalla voce di Kate: “Ginevra, hai visto che luna?! È bellissima,
grande, pallida, brillante. È la nostra!” Gin sorrise, guardava con quel viso
roseo la sua amica, sembrava sapere che qualunque cosa potesse pensare era come
dirla ad alta voce, erano sempre state sulla stessa lunghezza d’onda, due
antenne perfettamente sintonizzate. “Si Kate, è bellissima!”. Non fecero in
tempo ad arrivare alla macchina che Gin si tuffò nel bagagliaio dell’auto, aprì
il borsone nero che per tutto il viaggio aveva trattato come lo scrigno dei
segreti, e ne estrasse due buste di plastica trasparente, che lasciavano vedere
solo un quadrato di quella carta ruvida e sottile, che sembra quasi stoffa. Le
piantò in mano all’amica e continuò a rovistare: “Gin, cosa sono?” “Sono delle
lanterne cinesi, ed ecco qua: accendino e pennarello!” Si voltò, mostrando
soddisfatta gli aggeggi che si era procurata, come in una pubblicità, sorrideva
gentile e mostrava i prodotti, come se fossero tesori che solo loro
possedevano. E in un certo senso era così, il loro castello era pieno di
tesori, perché in un pennarello sapevano vedere una bacchetta magica con cui
materializzare i pensieri più profondi, in una candela sapevano cogliere
l’energia che faceva vibrare la fiamma, in una sigaretta l’importanza del
silenzio, della pausa, della tranquillità, nel suo fumo lo spirito del mondo.
Sapevano ascoltare ciò che i grandi pini potevano raccontare, storie di eroi e
di streghe malefiche; sapevano leggere su una nuvola i pensieri degli amanti
divisi, sapevano cogliere nella terra i semi della felicità: per questo, loro
erano speciali. “Bene Gin, e con questo ora cosa ci faccio?” “Kate piantala con
le domande stupide! Cosa vuoi farci? Aprila, è ovvio!” entrambe ridevano,
mentre scartavano quei regali così inusuali, quei regali che potevano significare
nulla, ma per loro significavano tutto. “Ora devi scrivere qualcosa sulla tua
lanterna, un nome, una citazione, una preghiera, quello che vuoi insomma…”
“Ok!”. Kate prese il pennarello e iniziò a fissarlo, fino a che con
l’espressione di un contadino che si scopre un genio iniziò a scrivere. Gin era
attonita. Così tanti pensieri le vibravano in testa, facevano a pugni e si
prendevano a braccetto, ma nessuno di loro sembrava significativo. Erano tutti
belli, profondi, suoi, ma nessuno era quello giusto. Nessuno era completo,
emblematico, adatto per portare il suo messaggio all’universo. Era confusa, in
panico, aveva progettato quella sorpresa per giorni, comprato le lanterne,
studiato ogni minimo dettaglio, però si era dimenticata della frase. Pensava
che le sarebbe venuta di getto, confidava nel suo istinto felino che non
l’aveva mai tradita eppure ora si trovava immersa nel vuoto più confuso, gli
occhi persi nel blu pesto, e le dita che tamburellavano sulla carrozzeria della
macchina; cercando qualcosa, un segno, una lucina, un suggerimento. Guardò la
luna e si ricordò, era così semplice, come le tabelline e l’abc, come un piatto
di pasta con un po’ d’olio, semplice come un cavallo bianco che corre nella
brughiera, così semplice da diventare ovvio, e a volte inafferrabile. Ma era
sempre stato così, l’aveva sempre saputo, l’aveva sempre osservato, quel
precetto che dentro di lei viveva e germogliava, quello che l’anima le diceva
ogni giorno, quello che la luna le aveva appena suggerito. Voleva urlare dalla
gioia, ma si limitò a scrivere sulla sua lanterna: “chiedi, CREDI, avrai. Sono
sempre i sogni a fare la realtà.” Ecco quella era Gin. Sogni: ad occhi aperti,
nel letto, guardando un fiume, una fotografia, sfidando tutti i giorni l’impossibile
nonostante tutto e tutti, in ogni minuto a sguainare la sua Excalibur contro la
razionalità, la normalità e l’obbiettività. Sono sempre i sogni a fare la
realtà, una contraddizione, quanto Gin. Lei che era fuoco e acqua, forte come
una roccia ma sensibile quanto una ferita aperta. Lei che voleva il tutto, ma
guardava i dettagli; lei come il profumo dei dolci, goloso quanto nocivo,
inebriante quanto caldo, quasi da scottarsi. Burrosa e croccante, dolce e
amara, come il cioccolato fondente. Era l’irriverenza, la trasgressione ma poi
la dolcezza, sempre a modo suo, quando decideva di voler lasciare un segno
indelebile, quando voleva farsi ricordare per sempre, quando voleva diventare
droga. Gin: così sicura di sé da confondere, e così confusa da avere sempre
delle idee chiare, per quanto strambe, per chi vivesse con la mente e non con
lo spirito. Gin, così impenetrabile e così limpida, così incapace di lasciare
andare le persone a lei care, così selettiva e dura, così brava a sbattere le
porte in faccia a ch per lei era nulla. Forte come un’amazzone, altezzosa come
una regina, libera come una zingara, misteriosa come una maga, beffarda come un
folletto, leggera come una fata.
“fa vedere!” la voce di Kate la fece trasalire. Gin, soddisfatta,
mostrò la lanterna: sapeva che Kate avrebbe capito, sapeva che non sarebbero
servite altre parole e il sorriso limpido dell’amica lo confermò. Poi guardò la
lanterna di Kate, e lesse: “siamo la Montblanc, con cui ti faccio fuori, siamo la
risata dentro il tunnel degli orrori.” Sorrise e guardò l’amica, quel viso di
porcellana, quel corpo minuto ma perfetto, quell’espressione di pace. Ligabue
doveva conoscere Kate, doveva essere andato a studiarla nel sonno o doveva
averla spiata mentre andava a scuola, perché quella frase era Kate. Era la sua
forza e la sua profondità, quella strana capacità di leggere tra le righe,
vedere oltre la foschia, riuscire a scorgere, come un rapace notturno, quello
che un cespuglio spinoso nascondeva. Erano i suoi pensieri profondi, i suoi
schemini insensati, i tratti fini con cui disegnava, l’importanza che dava a
ogni singola parola, e perciò non le sprecava. Era la sua solarità, quella
voglia di vivere, ballare e correre su spiagge di corallo. Quel sorriso che
illuminava la stanza quando entrava, quella risata che diventava una dolce
melodia, che penetrava l’anima e la attraeva a sé. Quella era Kate, in tutto il
suo splendore.
Le ragazze sorridevano, illuminate dalla luce fioca dei
lampioni, sparsi qua e la come papaveri in un campo di grano, Gin sistemò la miccia
della sua lanterna, poi preparò anche quella di Kate, e le posò a terra,
davanti a loro. “allora siamo pronte, manca solo lo scoccare della mezzanotte!
Kate, guarda l’ora!” “mancano tre minuti, ci sediamo?” “per terra?” “si! Per
terra!”. E si ritrovarono li, sedute a gambe incrociate come fatine sui funghi,
con la sigaretta in mano che parevano indiani intenti a fumare il kalumè della
pace, davanti al barlume di luce che stavano per regalare al mondo. Se si
tendeva l’orecchio si riusciva a percepire la musica della discoteca, e a
volte, gli urli di qualche fumatore che, troppo ubriaco, uscito per concedersi
al suo vizio, comunicava al mondo messaggi incomprensibili. Davanti a loro le
stelle, quei puntini di luce che sembravano gli occhi degli angeli. E la luna
che sembrava la luce infondo al tunnel, la speranza dopo la disperazione, la
tanto agognata e attesa via d’uscita. I pini neri svettavano rigidi verso la
grande perla, e ogni tanto, quando il vento iniziava a cantare si impegnavano
in una danza di contemplazione, quasi un rito esoterico, per rendere omaggio
alla loro dea. “Kate, ci credi?! È l’ultima luna del 2013! Si rinizia ancora
una volta…” “Io e te, te ed io. Solo e sempre noi.” “Già, meno male che ci siamo
noi”. “Però Gin, se ci pensi, la luna è sempre la stessa, anche se gli anni
passano. Tra meno di un minuto scatterà il 2014 ma l’astro che vedremo non sarà
diverso da quello che abbiamo davanti adesso!” “No Kate, devi guardare oltre.
Razionalmente forse è lo stesso, ma tutto muta profondamente. È lo spirito che
cresce, il fiume del divenire, quella sottile linea tra un anno e un altro, tra
un giorno e quello seguente, quel vuoto del tempo, quell’attimo in cui tutto
può cambiare! Questa luna tra un minuto avrà una posizione diversa, nonostante
l’occhio non lo possa percepire, avrà un influsso diverso su chi nascerà in
quel momento, le farà da madre o da amante, o forse da musa. Guarda oltre
Kate!” fissavano la luna, si immergevano nella sua luce pallida e perlata come
potesse donare vita, energia. Ne respiravano il profumo impalpabile, sfioravano
con le dita la polvere cosmica, e osservavano quelle stelle, che sembravano
brillare a intermittenza, salutarle con un timido ciao che solo chi un po’ se
ne intendeva di magia poteva intravedere. I loro occhi rispondevano con un
luccichio, le bocche si incurvavano e i capelli si univano alla danza delle
cime degli abeti, lasciandosi dolcemente cullare dal vento. Erano attratte,
fatalmente, come il ferro da una calamita. In quella notte erano diventate proprietà
della luna, sua incarnazione, legate profondamente da un abbraccio invisibile a
quell’enorme occhio bianco che dominava con forza il blu scuro. Erano parte di
lei, e lei parte di loro.
“Dieci, nove, otto…” La voce di chi aveva deciso di brindare
con il cielo allo scoccare della mezzanotte arrivava fino a lì, e Gin, con un
gesto frenetico, accese una miccia dopo l’altra. “…Sette, sei, cinque” Kate prese
la mano dell’amica, era entusiasta, talmente emozionata che una goccia di
rugiada faceva capolino nei suoi occhi, guardò la lanterna che si gonfiava
tirando verso l’infinito il filo sottile che teneva saldo in mano. Poi guardò
Gin, uno sguardo intenso, uno sguardo che non lasciava spazio a discorsi, uno
sguardo che le univa, le stringeva e plasmava le loro anime in un unico
spirito, e capirono che stava arrivando. “… Quattro, tre …”. Parlarono
all’unisono, come se d’un tratto si stessero liberando del veleno: “Ora!” e
lasciarono andare le lanterne, che lente si libravano verso l’eternità, come se
prima si volessero godere il panorama. Tutti quegli esserini sempre più
minuscoli, che si affaccendavano in festeggiamenti, lavori, abiti firmati e la
ricerca di una felicità materiale che non sarebbe mai arrivata. E loro, nella
loro piccolezza, non riuscivano a vederlo quanto quel mondo fosse fantastico,
speciale, pieno di magia e felicità, per chi avesse saputo trovarla. Le
lanterne oscillavano, si univano alla danza dei capelli delle ragazze, delle
cime dei sempre verdi; si lasciavano trasportare dal vento, catturare dalla
luna, ora facevano parte del tutto, quel tutt’uno di magia che era la forma
dell’universo. Le lanterne se ne andavano, trasportando nella loro luce
arancione i sogni di Gin, i desideri di Kate, due fiammelle di vita pura. Anche
Gin e Kate iniziarono a urlare “…due! Uno!!!” quasi come per far arrivare le
loro voci alle lanterne, alla luna, a quell’universo che le immergeva a volte
come un abbraccio, e a volte come un cappio. “Buon anno!!” si saltarono al
collo, si abbracciarono e iniziarono a saltellare, quando Kate si staccò e
disse ridendo: “ma lo sai che quello che abbiamo appena fatto è illegale?” “si
Kate, lo so! Questa società vuole impedirci anche di sognare, perché i sogni
sanno darti più forza del dolore, sono peggio del doping, ti rendono capace di
amare, di volare nel cielo, di apprezzare ogni singola foglia e ogni singolo
sguardo. I sogni rinvigoriscono, rimangono giovani, e ti lasciano quelle
scintille negli occhi, quelle capaci di guarire l’anima di chiunque ti stia
vicino anche solo per poco, quelle che sconfiggerebbero anche un drago. E loro
vogliono impedirci di sognare davvero, di sognare l’impossibile, di fare gesti
avventati, di chiudere la ragione in un profondo pozzo, di ammanettare la paura
e di tendere all’infinito. Perché è più comodo avere una serie di teste
abbassate, piuttosto che il sole negli occhi!” “e noi, Gin, li abbiamo battuti
ancora una volta, perché noi siamo il sole!” “già, e ora stiamo volando su nel
cielo, e regalando un pizzico di luce in più a questa notte oscura, un nuovo
desiderio da esprimere a chi guarderà verso il cielo.” E così salutavano le
preghiere che avevano affidato a quelle piccole mongolfiere luminose, così salutavano
quel 2013, così maledettamente triste, così estenuante, così terribile, ma che
forse era stato una benedizione. Gin si immergeva nell’aria, con occhi assorti
e il cuore aperto: “ Kate secondo te cosa simboleggia la luna?” “ è la
femminilità, la ciclicità della natura delle cose, il karma, la magia, la
fascinazione. La luna è donna, quella vera, quella con la d maiuscola, che
tutto domina e tutto attrae”. “ma la luna è anche rinascita, perché ogni mese
attraversa le sue fasi e da una triste mezzaluna si passa a questa maestosa
regina, che tutti i mesi cresce e sboccia come un fiore a primavera, come la
fenice dalle sue ceneri. Io penso che dobbiamo ringraziarla per ciò che ci ha
donato nell’anno passato. È vero, ci ha fatto soffrire, ci ha svuotato, ci ha
ucciso ma adesso stiamo rinascendo anche noi. Abbiamo imparato molto e inizieremo
questo nuovo 2014 con nuove consapevolezze. Ora so che vale sempre la pena
rischiare, senza soffermarsi sui guai che si potrebbero combinare, su quanto
potrebbe essere pericoloso o avventato. Ho imparato che bisogna sempre girare
con il cuore aperto perché l’amore si nasconde dietro ogni cosa, e soprattutto
perché qualcuno potrebbe aver bisogno di cure, di un riparo, di un po’ di
caldo, e solo in quel piccolo muscolo si può offrire tutto ciò. Ho imparato che
non si deve mai smettere di lottare, anche quando tutto sembra crollarci
addosso: si può guardare il soffitto solo per una sera, ma il giorno dopo
bisogna spostare le macerie, per lasciare spazio a ciò che arriverà. Ho
imparato che la vita può fare male, colpire all’improvviso, ma così come le
cose brutte anche quelle belle arrivano quando meno te lo aspetti. Ho imparato
che non c’è nulla che non si possa sopportare se ci si è costruiti una barriera
di cuori, che battono all’unisono, l’uno per l’altro, e che non si dilegueranno
mai. Ho imparato che si può chiedere aiuto, perché da soli non si risolve
nulla, e ho imparato che chi vuole esserci c’è di sua spontanea volontà, senza
che lo si chieda. Ho imparato che può esserti tolta una persona, che può
sparire dal mondo per un motivo stupido e che la consapevolezza che non potrai
più sentire la sua pelle calda ti logora ogni notte, ho anche imparato però che
parlare con le stelle dicendo il suo nome può essere bellissimo, e che se stai
un po’ attenta lo sentirai addosso in ogni momento. Ho imparato che non esiste
l’impossibile, è una pura convenzione così come la normalità, e il dare del
lei. Ho imparato che esiste qualcosa di magico che ci lega, una sorta di teoria
degli spiriti affini, e quando questo arriva nemmeno la più grande distanza ci
può fare paura: come succede tra di noi. Nemmeno un cataclisma, nemmeno le
migliaia di situazioni che il dio caos potrebbe tessere ogni giorno, nemmeno il
tempo, perché quando due spiriti si mischiano non c’è più via di scampo, non
c’è più modo di dissolverli, i loro segni e le loro botte sul corpo dell’altro
diventano indelebili. Ho imparato che tutto va come deve andare, e che a volte
bisogna solo cercare di seguire il profumo che gli eventi si lasciano dietro,
per vedere dove ci porterà. Ho imparato che quando la vita diventa beffarda
l’unica cosa che puoi fare è cercare di ridere più forte di lei, e ho imparato
che per quanti sogni possano venire infranti non si può mai arrendersi, o
diventeremmo vittime della codardia, perché non possiamo mai abbandonare noi
stesse. Ma la cosa più bella è che quando mi guardo allo specchio vedo la donna
che ho sempre sognato di essere: forte, combattiva, che sogna per vivere e vive
per sognare! Finalmente sono io, mi amo, finalmente mi sono trovata.” Kate
sorrise, abbracciò la sua amica in una stretta mortale, calda ed energica, la
guardò negli occhi e con voce soave disse: “benvenuta nel 2014 Gin! Nessun
proposito quest’anno: solo vivere per rischiare e rischiare per vivere!”.